FRANCESCO DILUCA

PORTRAITS

Basilica di San Celso

21 gennaio – 20 febbraio | 2022 | Milano

Appunti sull’opera di Francesco Diluca nella Basilica di San Celso

Angela Madesani

Negli ultimi tre anni ho curato alcune mostre nella Basilica di S. Celso. Sento che c’è la presenza di un fil rouge che li collega tutti. Non stiamo solo assistendo a uno spazio espositivo, ma a un luogo di accoglienza molto speciale. Questo è un luogo di silenzio, storia e spiritualità che può amplificare un senso di forte connessione se abbinato al giusto genere di arte contemporanea. Alcune delle mostre che ho curato qui sono state concepite specificamente intorno alla location. Altri, come questo di Francesco Diluca, hanno utilizzato pezzi preesistenti che si adattano perfettamente all’ambiente ospitante.

Tra le opere esposte molte appartengono alla serie Radicarsi . Il titolo fa riferimento alle radici , simbolo di continuità, memoria e rinascita. Nonostante la natura sia stata compromessa nel secolo scorso, indignata dal consumismo imperante, dallo sfruttamento ingiusto e dall’assenza di regole etiche, non si arrende mai, si fa avanti e continua a lottare per riguadagnare ciò che le è stato ingiustamente sottratto. Un forte richiamo a Gilles Clèment che descrive l’importanza dei paesaggi deturpati nel suo “ Manifesto del terzo passaggio”.

Attraverso questa serie di opere di Francesco Diluca possiamo intuire un legame con l’attuale pandemia, anche se la loro concezione è nata prima di essa.

Una testimonianza di quanto spesso la sensibilità degli artisti possa essere in anticipo rispetto allo stato attuale delle cose.

“Dai suoi strati profondi c’è molto che possiamo cogliere, Radicarsi traccia una visione fiduciosa del futuro, possibilità di rinascita e di rifioritura”.1 Le foreste, gli alberi, la cultura e la storia esistono grazie alle radici su cui poggiano, radici a cui dovremmo prestare più attenzione: danno senso alla nostra esistenza, senza di loro tutto sarebbe del tutto superficiale.

Non c’è continuità, dobbiamo osservare e studiare con il massimo interesse e attenzione il progresso e gli sviluppi costanti della vita. Le radici rappresentano la vita che simbolicamente abbraccia tutto.

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Diluca è un amante degli studi botanici, il suo studio è come una serra dove prosperano diverse specie di piante sotto una bella luce. Le radici non sono tutte uguali, sono come ritratti ideali. Ogni essere è diverso l’uno dall’altro. Questa indagine è uno degli aspetti più intriganti del suo lavoro. Da ognuna di esse traspare devozione, quasi febbrile, sempre pregna di simbolismo, ci sono richiami alle dimensioni esteriori, al concettualismo. Ars e non techne.

Una delle sculture in mostra ha la forma di un uomo con i polmoni visibili all’interno della conchiglia, il riferimento formale è a I Soffi di Giuseppe Penone, artista amato, ma sarebbe riduttivo pensare a una mera allusione.

Qui il vero riferimento è allo stato attuale del mondo, al dramma quotidiano che stiamo vivendo, all’aria sempre meno respirabile.

È come se con il suo lavoro fosse riuscito ad allinearsi completamente con una dimensione sociale, ad analizzare le complicazioni sempre crescenti del rapporto dell’uomo con la natura.

Si tratta di una mostra basata sul concetto di resistenza e non resilienza, termine tanto in voga in questo momento ma usato spesso in contesti sbagliati, sull’inizio di una nuova vita, sullo sbocciare di una nuova esistenza, sulla possibilità di rigenerazione e rinascita.

Sento in questa lettura di percepire anche un tocco di riferimento autobiografico.

Il corpo principale dell’opera è costituito da un gruppo di sculture, una folla che deve essere affrontata dallo spettatore. Dopo uno sguardo attento, essenziale per accedere ai significati più profondi dell’arte moderna, molti strati iniziano a districarsi.

Mi riferisco alle sue sculture naturali. La primavera con la sua rigenerazione intrinseca e l’esplosione floreale e riproduttiva, e l’inverno con la sua rigidità e incapsulando il dramma degli inevitabili finali. In ogni sua opera si percepisce un accenno a Eros e Thanatos, due opposti strettamente intrecciati.

Questi sono solo suggerimenti ovviamente, non c’è una lettura univoca. Non c’è certezza, non c’è verità assoluta.

A Papillon, un altro pezzo in mostra, il bianco gelido delle farfalle che delineano il corpo di molte sculture, è quasi accecante. Non sorprende che una farfalla sia solo la fase finale di una breve vita.

Han ci ricorda che i rituali dovrebbero avere un riferimento positivo. Danno valore a ciò che abbiamo imparato finora, riconoscono ciò che è stato, ci ricordano le nostre radici.

Attraverso questo lavoro e la ricerca estetica di Diluca, possiamo individuare la tensione tra un inizio e una fine. Una lettura della vita che è quasi sacrale.

Ricordo facilmente la prima volta che ho visto la performance nello studio di Francesco.

Ero l’unico spettatore. Ne sono rimasto così colpito che è difficile dimenticare quella sensazione di eccitazione. È stato come assistere a un rituale di purificazione per l’arte, dove ciò che conta è l’esperienza dello spettatore, in costante mutamento per le sue circostanze personali.

La performance quasi cancella l’ambiente circostante, ciò che conta in quel momento è solo l’azione e il suo significato ontologico.

Lo scopo dell’opera d’arte è nel suo essere, nella sua capacità di penetrare lo spettatore che la assiste.

Nella mostra sono esposti anche alcuni pezzi della serie Kura Halos, la “forma umana” greca.

Sono figure sia femminili che maschili.

Ancora una volta è un richiamo alla forza nascosta di un materiale fragile. In questo caso il riferimento è al corallo. Il corallo nella nostra cultura è una chiara metafora del sangue di Cristo. Si tratta di una serie di pezzi che evoca le vene e le arterie del corpo umano. Mi piacerebbe vedere tracce dei trattati di anatomia di Andrea Vesalio.

Questo è il modo dell’artista di raccontare la nostra esistenza nelle sue molteplici sfaccettature.

 

Il senso della mostra Ritratti , è proprio questo: “Tutte le tante diverse figure condividono lo stesso fascino, ma raccontano storie diverse, esprimono fasi di evoluzione o involuzione, vita o morte, ognuna rappresenta una stagione diversa”. 2 In essi abbiamo potuto vedere anche tutte le fasi progressive della vita.

Lo spettatore è accolto da una figura alta 2,5 metri, nelle vesti di Caronte, il traghettatore, una guida che ci introduce alla fitta folla di personaggi.

All’interno della chiesa insieme ai brani di Radicarsi , l’artista intrattiene i suoi ospiti con la performance Post fata resurgo , tratta da un motto della Fenice. La risurrezione dopo la morte, la ciclicità della nostra esistenza, concetto a lui caro e ricorrente.

È a questo punto che una scultura di lana e acciaio prende fuoco, diventa rapidamente polvere che l’artista raccoglie e usa per plasmare nuovi pezzi. Il materiale di scarto trova la sua legittima strada per diventare nuova opera d’arte, in un rituale di matrice alchemica.

“Il riciclaggio è un’espressione ciclica che inserisco spesso nel mio lavoro. All’inizio il processo era quasi inconscio, perché sono affascinato dalla bellezza in tutte le sue espressioni.

La natura contiene creazione e distruzione, quindi perché dovrei cercare di condensarla in un momento statico? L’arte può evolversi in qualcosa di meglio o peggio della realtà. Chi può dirlo? La rivelazione è che ogni volta nasce qualcosa di nuovo. Il post fata resurgo è la mia più grande espressione artistica perché è qualcosa che creo per poi distruggere. Non mi interessa diventare un artista sciamanico. Dopo aver dato vita a una nuova idea concettuale, l’esecuzione pratica potrebbe essere fatta da chiunque”. 3 Diluca va contro la corrente principale del suo tempo che associa i rituali alla noia e ne offre la sua versione. Mi piace assistere alla parte ritualistica di questo gesto, la simbolica riaffermazione di un mito, finalmente reinterpretato in chiave positiva. Proprio come il filosofo coreano Byung Chul Han sottolineando la scomparsa dei rituali all’interno della nostra società.